MISSIONE IMPASSIBILE – The S.H.I.T. Conspiracy 3

 

 

3. Missione Impassibile.

Avendo con cura riposto attrezzi e abiti da lavoro, Ahmed (il cui vero nome non era Ahmed ma abituarsi a quel piccolo segno d’indifferenza faceva parte della Missione Impassibile) percorse a ritroso il corridoio diretto agli ascensori; il tragitto si rivelò, non a caso, più affollato di quanto non fosse ogni giorno, a quell’ora. Si trattava a prima vista di impiegati e funzionari assegnati agli uffici di quel piano più altri in transito da altri piani e uffici: questo, in superficie. Ahmed notò con un minimale, interiore senso di soddisfazione la frenesia, il nervosismo, lo stupore e infine l’inorridita sorpresa che aleggiavano nell’aria diffondendosi tra i dipendenti della Grande Azienda come un virus, mano a mano che s’avvicinavano al ristretto locale da dove continuavano a provenire urla strazianti.

Con la consueta calma da fine turno l’inserviente raggiunse gli ascensori, premendo il pulsante di chiamata per la discesa; era di fondamentale importanza per lui mantenere il medesimo atteggiamento di sempre, quello più gradito ai suoi due datori di lavoro (impresa di pulizie e Grande Azienda). Bovina placidità sorridente, lieve ottundimento sensorio soporoso: Ahmed sapeva come attenersi al copione scritto per lui. Tranquillizzante, silenzioso, invisibile; parlare solo quando interrogati, ridere alle solite battute logore e stereotipate, pulire e disinfettare senza inutili polemiche sulla cattiva educazione generale. Un ruolo che richiedeva pazienza, nervi saldi e precisione: in fondo, bastava poco per rischiare il posto. Il semplice gesto di strofinare un dito sul ripiano d’una scrivania qualsiasi.

Nessuno avrebbe fatto caso a lui, neppure (e meno che mai) nel caos generato dall’avvenimento ancora in corso; nessuno avrebbe fatto domande né collegato Ahmed-non-Ahmed alla sciagura occorsa al Dottor Robertetti. Infine, nessuno lo avrebbe notato tornare l’indomani e riprendere servizio. Solo un addetto alle pulizie. Uno che pulisce la merda. Approfittando della cabina vuota, sfilò dalla tasca posteriore dei pantaloni il Libro Sacro aprendolo in fretta per rileggere gli appunti presi a matita nella facciata libera dell’ultima pagina; implorando mentalmente perdono per quella mancanza di rispetto studiò la missione che la voce elettronicamente alterata al cellulare, ascoltata la comunicazione in codice, gli aveva assegnato.

Nel frattempo, come una fenice risorta da ceneri decisamente maleodoranti, Robertetti emerse dall’angusto loculo nel quale era rimasto involontariamente imprigionato: urlante ma vivo, dolorante ma solo nella mente, sostenendo con entrambe le mani il voluminoso addome intatto. Nessuna ferita, nessun segno di morsicature a dispetto di quanto, con voce resa infantile dal terrore, lo stesso funzionario andava gridando a occhi sbarrati: – “Aiuto. Mi sta divorando. Aiutatemi. Fermatelo. Mi sta mangiando!!”. Non era quello l’orrore, non era quello a far ritrarre al suo passaggio i pur volenterosi colleghi accorsi. Robertetti non era divorato da un’orrida creatura, Robertetti ERA l’orrida creatura che andava descrivendo.

Del resto, oltre a trascinarsi con i pantaloni penosamente abbassati, era coperto di pasto serale e prima colazione fino agli occhi. E nessuno dei suoi colleghi si sarebbe fatto reclutare per quella Missione Impassibile.

(continua con le mollette sul naso. Il precedente episodio è QUI).

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Angolo delle letture disinteressatamente consigliate:

Just Ice – La Giustizia è un piatto che si serve a freddo.

 

THE S.H.I.T. CONSPIRACY 2: Dal profondo

Da conoscitore della materia qual era, il Dottor Robertetti intuì all’istante che qualcosa non stava andando per il verso giusto: il getto d’acqua non fluiva con il consueto scroscio argentino (per quanto Robertetti non avesse mai scoperto cosa c’entrasse l’Argentina. Ma era un problema ignorabile come la maggior parte di quelli che giacevano sulla sua scrivania); viceversa, dal profondo dell’ingiallita ceramica aziendale si stava sollevando un cupo, gorgogliante borbottio. Un ringhio basso e soffocato che non poteva appartenere a una semplice conduttura ostruita. Scostandosi d’istinto, i pantaloni non ancora risollevati, Robertetti osò l’inosabile; compì il gesto che in 47 anni di esistenza aveva sempre evitato, con accuratezza: abbassò lo sguardo in direzione del combinato disposto tra umanità e idraulica. In altri termini, osservò l’abisso.

Solo per scoprire che l’abisso stava osservando lui. Dal profondo.

Con. Un paio. Di. OCCHI.

I pantaloni, trascinati dalla pesante cintura in vero coccodrillo (con buona probabilità uno intero, valutando la circonferenza del Dottore) ricaddero sul pavimento piastrellato in elettrico blu a psichedelico contrasto con il grigio perla delle pareti; seguiti, in una frazione di secondo, da tre quotidiani, un contenitore termico e un ombrello portatile in caotica caduta libera. Le mani di Robertetti sventolavano in aria mentre il proprietario cercava di uscire dal bagno non accorgendosi che quel tentativo era frustrato da due ben precisi fattori: la sua stessa ingombrante mole e l’ambizione d’aprire la porta spingendo anziché tirare. In leggero ritardo sull’oggettistica già abbandonata alla forza di gravità, un fiotto di saliva esondato dalla bocca rimasta spalancata piovve sul piastrellato allucinatorio mentre gli occhi del funzionario rimanevano incollati sulla realtà (?) che si stava sollevando da quello che sino a pochi istanti prima altro non era che l’ordinario recipiente consacrato a un’egualitaria manovra liberatoria. Una realtà viscida, al tempo stesso acquosa e solida. Tremolante come budino e grumosa come un impasto mal riuscito.

Al culmine della paura e dell’orrore, Robertetti riuscì finalmente a urlare quando intravide i DENTI della creatura.

Purtroppo le sue urla non furono sufficienti a preservare un così valido funzionario (più volte proclamato “dirigente del mese”) dall’essere divorato; in un estremo sussulto di lucidità, prima di soccombere a quel destino atroce, il Dottore ebbe modo di riflettere per l’ultima volta sul significato e sui paradossi dell’esistenza. Quella creatura si era in qualche modo generata da lui (dal profondo, un altro profondo), in qualche modo; e dopo averlo divorato, lo avrebbe di certo digerito e… cosa? Assimilato? Espulso?

Mentre l’orrore terminava il non fiero pasto, ponendo le basi per la risposta che Robertetti non avrebbe più potuto conoscere, all’altro capo del corridoio esterno, chiuso nello stanzino di servizio, Ahmed (il cui nome non era Ahmed ma in quel posto del cavolo tutti lo chiamavano così. Da solo contro quattrocentotrenta indigeni convinti aveva deciso di chiamarsi Ahmed. Almeno lì) prese dalla tasca posteriore della tuta un cellulare usa-e-getta, componendo un numero a memoria. Al segnale di risposta l’interlocutore non fece seguire parola alcuna, avendo l’unico incarico di ascoltare. Toccava al giovane laureato in biologia, temporaneamente impiegato nei servizi di igienizzazione manuale (Ahmed o comunque si chiami, insomma) parlare.

– Sono io. Il fiore è sbocciato e si sta nutrendo. E’ “go” per la potatura. “Go” per la potatura.

(continua dopo l’angolo del giardinaggio. Il precedente episodio è QUI)

 

RESURRECTION - La serie che può cambiare la vosta mente. Alla lettera.
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THE S.H.I.T. CONSPIRACY (Un Thriller)

Come ogni mattina, il Dottor Robertetti attraversò a passo di carica lo spazio critico tra l’ascensore e la porta del locale bagno. Rosso in volto, già sudato nonostante la temperatura invernale e il non perfetto funzionamento dell’impianto di riscaldamento, spalancò la porta con una mano unticcia mentre con l’altra reggeva in precario equilibrio ombrello portatile, tre quotidiani e un contenitore termico per il pranzo. Facendo irruzione con la stessa grazia di un quarterback con le emorroidi, il “Dottore” (tutti, in quel palazzo, si facevano chiamare così, per default) evitò per poco di travolgere Ahmed, l’addetto alle pulizie: per la precisione fu Ahmed (il cui vero nome non era Ahmed ma tutti, in quel palazzo, lo chiamavano così, per default) a scansarsi con agilità agevolata dalla pratica. Si trattava di un situazione ripetitiva, ampiamente collaudata; la semplice coincidenza tra l’orario abituale di arrivo del funzionario di dodicesimo livello e l’orario di svolgimento pulizie per i locali del primo piano. Ahmed sapeva bene quale fosse l’esigenza primaria del Dottore quindi non si limitò a schivare la porta ma fece addirittura due passi all’indietro pur dovendo spostare anche il carrello con stracci, panni, secchio già colmo d’acqua annerita e spazzolone; con la consueta e innata gentilezza – dopotutto, era laureato e di buona famiglia prima che la guerra nel paese d’origine facesse di lui un profugo – salutò l’arrembante funzionario.

– Buongiorno, Dottor Robertetti!

– Levati dalle palle, devo CAGARE!

Ridacchiando nella sua imitazione di Eddy Murphy quando recita la parte del semi-deficiente, Ahmed lasciò il locale bagno; dentro di sé sapendo che in pochi minuti tutta la fatica per lucidare pavimento e sanitari sarebbe andata perduta. Robertetti non era un normale essere umano con una normale peristalsi, era un tornado F5 la cui potenza rivaleggiava con le peggiori catastrofi climatiche degli ultimi anni; in effetti si sarebbe potuto dire che se esisteva un ‘effetto farfalla’ nell’emisfero occidentale industrializzato, quello era Robertetti. Ahmed fu contento di sentire la porta basculante del bagno richiudersi con un solido “klaa-ak” dietro di lui.

Nel medesimo istante il Dottore fece sbattere in chiusura la porta del bagno maschile, accelerando le operazioni di rilascio cintura e pantalone: con un deciso strattone alle mutande eliminò l’ultimo ostacolo alla partenza del vettore M, giusto in tempo per il fatale comando “ignition” del proprio countdown. L’asse in plastica bianca vibrò ai limiti della propria, limitata, elasticità mentre l’imponente stazza di centotrenta chili per un metro e settanta centimetri scarsi – avvolti come da copione aziendale in giacca e cravatta dell’unica sfumatura di grigio autorizzata, quella più insignificante – s’incastrava nell’ovale come un’astronave alla stazione madre. L’apertura del portello di scarico fu immediata. Dall’esterno, dagli uffici circostanti e persino dal locale di servizio, all’altro capo del corridoio, dove Ahmed stava facendo rifornimento di detersivi, il rumore prodotto dal tornado risultò perfettamente udibile così come il lamento sofferente della farfalla che ne era all’origine.

Come ogni mattina, il Dottor Robertetti si chiese cosa mai avessero fatto di male i suoi genitori per dotarlo di una motilità così precisa e devastante, soprattutto di prima mattina. Dopotutto, erano ferventi cattolici; quel tipo di coppia votata alla fedeltà assoluta e al totale rispetto dei valori. Insomma, come amava dire per sollecitare il facile divertimento dei colleghi (soprattutto dei superiori, ai quali era votato molto più di quanto i suoi genitori non lo fossero a Dio), lui era la prova che mamma e papà almeno una volta nella vita avevano scopato. E siccome non aveva fratelli, il resto veniva automatico. Come il fatto che il DNA familiare non dovesse essere di primissima qualità: insomma, la colpa (se una colpa c’era) non poteva essere sua né, tantomeno, della sobria e salutista colazione che amava ingurgitare al mattino. Caffelatte, marmellata, burro, doppia fetta di pane integrale, quattro biscotti al cioccolato, due bicchieri di succo d’arancia. Tutta roba naturale, tutto bio.

Come bio era il risultato dei suoi sforzi, disposto con bio casualità nel contenitore in ceramica. Ripulendosi con una buona metà del rotolo di carta disponibile, una mano impegnata nella manovra e l’altra sempre, miracolosamente, impegnata a salvare giornali, ombrello e contenitore termico, Robertetti lanciò uno sguardo preoccupato alla cospicua produzione rilasciata: “Merda, qua s’intasa” rifletté armoniosamente, ignaro d’avere concepito un pensiero girevole, funzionante anche al contrario. La riflessione successiva, distintiva del suo carattere, fu “Chissenefrega. Tanto pulisce quel negro di merda, coso, come si chiama… Ahmed. O Abdallah. Fanculo”.

Soddisfatto della propria capacità e velocità di problem solving, schiacciò il tasto basculante dello scarico.

E quello fu l’inizio della tragedia.

(continua dopo lo scarico)