Nel merito del merito

http://www.youdem.tv/doc/276858/renzi-cambieremo-litalia-posso-perdere-le-elezioni-non-la-faccia.htm

Condivido per NON condividere: agli studenti della Georgetown University è stata propinata una lezione di meritocrazia da parte di un Premier il cui principale merito non è quello di essere stato eletto con un voto (e anche il voto elettorale è una misura di merito) bensì quello di essere entrato nel merito di uno statuto di partito per modificarlo a proprio esclusivo vantaggio: senza queste modifiche, non avrebbe potuto partecipare alle primarie (dato che ricopriva già una carica pubblica dalla quale avrebbe prima dovuto dimettersi) né far partecipare alle votazioni i non iscritti, quando solo gli iscritti avrebbero titolo di merito per eleggere un segretario nazionale di partito (è come se per eleggere l’amministratore delegato di un’azienda, il consiglio di amministrazione facesse votare anche l’omologo organismo delle aziende concorrenti). Con quale merito, quindi, il Premier discetta di merito ai meritevoli studenti della Georgetown? Facile: per meriti acquisiti, come le riforme. A tirar fuori documenti dai cassetti e far finta che siano idee sue, è bravissimo: di questo, bisogna dargli merito.

1.895.332

1.895.332. Sono i voti (fonte: sito nazionale PD) ottenuti da Matteo Renzi alle primarie per l’elezione del segretario nazionale PD. E’ il dato ufficiale, così come quello dei votanti: 2.797.938 che, aggiungendo i connazionali all’estero, diventano 2.814.881. Accade, tuttavia, da qualche tempo, un fenomeno curioso: qualsiasi riserva o domanda si rivolga al nuovo segretario PD o a qualcuno dei suoi collaboratori, la risposta inizia con il ricordare l’esito delle votazioni primarie, a guisa di argomento definitivo e tranchant e magari, per dare maggior peso al concetto, aumentandone le dimensioni. E’ già accaduto di sentir attribuire all’indiscusso vincitore delle primarie la cifra di duemilionisettecentomila preferenze (cioè, quasi il totale dei votanti); nell’intervista pubblicata questa mattina da La Stampa, Renzi fa addirittura l’en plein: “(..) io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato perché hanno condiviso quel che ho promesso che avrei poi fatto.”

L’intera cifra dei votanti, più, evidentemente, quelli che hanno mandato la giustificazione dei genitori ma, se non avessero avuto l’influenza, avrebbero votato per lui. Sto scherzando e magari la cifra è venuta fuori così, per la foga dell’argomento o un’errata trascrizione del testo dell’intervista. Oppure no, questo tormentone del “ho preso una valanga di voti quindi ho ragione io” è il segno vero di questo self-proclaimed rinnovamento, fatto solo di prepotenza e di idee appena abbozzate perché “Renzi non si cura dei dettagli” (rileggetevi l’intervista di Gutgeld, qualche post fa). Come un pessimo gruppo metal, il segretario-sindaco non si premura di suonare seriamente e di avere almeno un chitarrista degno di questo nome ma soltanto di alzare il livello degli amplificatori. Rumore politico.

Da ultimo, se avrete la pazienza di leggere l’intervista, fate un piccolo esercizio: rilevate, a vostro giudizio, qual’è l’affermazione più forte, più netta e decisa. Per me, é questa: “(..) Lui, Enrico (Letta), è stato portato al governo anni fa da D’Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente”. Questo è l’uomo che vorrebbe accreditarsi come segretario di tutto il PD, come l’uomo del plebiscito. Lui combatte D’Alema – che non ha incarichi, che ha di molto ridotto l’attività all’interno del partito e che, in ogni caso, non dovrebbe rappresentare un gran pericolo per qualcuno che ha davvero ottenuto 1.895.332 voti – ed ha preso tre milioni di voti, quindi ha ragione lui, su qualsiasi cosa.

Prima che arriviamo alle folle oceaniche ed al consenso obbligato, ribadisco che io non l’ho votato e che sto bene, anche dalla parte del torto.

Postmoderno post

[banner network=”altervista” size=”300X250″] “Il personaggio Renzi è la figura del politico comunicatore per antonomasia, fin dal suo affacciarsi nell’agone politico. “Matteo” rappresenta nel Pd l’espressione più marcata della post-politica e della post-ideologia. Non si può pensarlo se non nell’Italia dopo gli anni Ottanta nella quale la crisi della credibilità della politica è accompagnata per un verso alla “performing society”, per l’altro alla personalizzazione e mediatizzazione di chi faceva e fa politica.”

Definizione del Professor Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia in una breve intervista al sito www.formiche.net (testo completo qui); poco più avanti, ci si imbatte in un’altra interessante affermazione:

“Cuperlo è sicuramente un intellettuale ma rifiuta la post-modernità. In questo è “nobilmente resistente” ma dovrebbe trovare il modo di stare nella post-modernità, magari in maniera critica. Si tratta di un processo di rielaborazione che richiede molto tempo.”

Dunque, Cuperlo non è postmoderno, Renzi sì. Postmoderno? Altra definizione: mutuata dal filosofo Lyotard, secondo il quale l’epoca moderna che precede la contemporaneità postmoderna era caratterizzata dal progetto di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi unitari. Ad esempio, i grandi movimenti della modernità quali l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo, possedevano la pretesa di racchiudere il senso dell’intera realtà entro un principio unitario: la ragione per il primo, il movimento totalizzante dello spirito per il secondo, le leggi materialiste della realtà per il terzo. La postmodernità è caratterizzata invece dalla caduta di queste pretese e dal conseguente sfaldamento delle certezze stabili che possono indicare all’uomo un qualsiasi sentiero definitivo. Più o meno.

Per quanto ovvio, non è l’unica definizione possibile e teorizzata di ‘postmoderno’; altre si possono trovare, soprattutto con riferimento ai processi sociali ed alle arti. Certo, se seguiamo la tesi per la quale “una società così decentralizzata inevitabilmente generi percezioni e reazioni descritte come post-moderne, come ad esempio il rifiuto della unitarietà della metanarrativa e dell’egemonia, unitarietà vista come falsa e imposta; la rottura dei tradizionali steccati tra i generi, il superamento delle strutture e degli stili tradizionali; lo spodestamento di quelle categorie figlie del logocentrismo e il rifiuto delle altre forme di ordine artificialmente imposto” e pensiamo allo scenario politico e sociale italiano di oggi, possiamo vedere similitudini e processi preoccupanti. Per i quali possiamo dire che la politica nel nostro paese è molto ‘postmoderna’.

Tuttavia, prima di ricordare a tutti che, come nella migliore delle tradizioni d’ogni disciplina, anche la definizione di ‘postmoderno’ ha i suoi detrattori, si presta a critiche d’ordine, diciamo, cronologico e viene superata – siamo all’ovvio – dalla definizione di ‘post-post moderno’; e prima che un maelstrom filosofico si apra sotto i nostri piedi inghiottendoci, vorrei tornare alla prima definizione del Professor Panarari. Rileggete attentamente e provate a sintetizzare così: post-ideologia-anni ottanta-performing society (cos’é? Prof?)-mediatizzazione. Sintetizzate ancora: post-ottanta-society. Vi ricorda nulla – soprattutto, vi ricorda nessuno?

Non c’era già qualcuno, allora come oggi il sindaco di Firenze, che si muoveva con grande sfoggio di sicurezza, decisionismo, ansia di vittoria, di ridimensionamento (addirittura, schiacciamento) degli avversari, progetti grandiosi di riforma o di riformismo e mutamento sociale? Qualcuno nota una somiglianza, qualcuno ricorda un nome.

Io sì. Poi, magari, mi sbaglio al 90% (ok, mi tengo un grasso 10%, va bene?). Eppure, vedo comporsi i frammenti di questo nuovo postmodernismo, frammenti così dinamici, così liquidi (come i partiti postmoderni, no?) che si potrebbero bere. Come una volta si bevevano le città.

Ma ho mal di testa, stasera.