Test psico-attitudinale # 1

Buongiorno. Siete alle dipendenze di un’importante azienda nazionale, in qualità di funzionario. Benché abbiate già raggiunto un interessante livello di carriera – siete responsabile dell’Area Vendite di Firenze – vedete diminuire le vostre possibilità di crescita professionale, soprattutto a causa di una struttura ormai invecchiata, inadatta ai tempi ma di fatto impermeabile ai cambiamenti. Decidete quindi di sperimentare un diverso approccio: volendo puntare alla carica di Amministratore Delegato, presentate una richiesta di modifica allo statuto aziendale, di modo che l’A.D. non venga eletto solo dagli azionisti interni ma anche da quelli di altre aziende concorrenti – aziende delle quali, nel frattempo, avete provveduto ad acquistare qualche piccolo pacchetto di azioni.

Il Vostro dubbio è: considerato che si tratta dello stesso trucco che, più o meno da sempre, utilizzano anche gli altri, come farete Voi a sostenere d’essere DIFFERENTI?

JIM MORRISON IS DEAD

Sarebbe stato bello poter proporre un nome, per la Presidenza della Repubblica, del tutto al di fuori della folta rosa circolata sin qui. Ma questa è l’epoca delle ali tarpate, non si può volare alto con una platea elettorale che si auto-assolve ogni volta (checché ne dica il Ministro Barca); con il rinovellato Leader responsabile dello sfascio morale, sociale ed economico del paese e con i gaudiosi movimenti autistici che si scrivono la realtà la sera prima d’addormentarsi, sull’Ipad. Marini non va bene? Potrebbe essere la nostra ultima chance per varare un governo e dare un colpo di timone. L’ultima chance prima di sprofondare – senza ritorno – nei debiti, nel dramma sociale, nell’incapacità manifesta dei nuovisti di ogni sponda. Non agito spettri, il processo è già maturo: continuiamo a dividerci, a litigare, a guardarci l’ombelico sognando improbabili candidati salvifici (il mio? Jim Morrison. Ma lo dico per i compagni della mozione Morrison, Jim è..), siamo già oltre il ciglio del burrone. Discutiamo ancora, ragioniamo, andiamo avanti tutta la notte: ma domattina vediamo di fare il nostro lavoro. Bene. TUTTI insieme.

(continua – ma sarebbe meglio di no)

CATOBLEPISMO, he wrote

Catoblèpa (latinocatoblepas), o, con accentazione latinacatòblepa, è un animale fantastico descritto da Plinio il Vecchio e da Claudio Eliano. Nell’antica zoologia greca e romana era una specie di serpente o di rettile non individuata che si distingueva per la posizione della testa, volta verso il basso; o quadrupede africano, raffigurato col capo pesante sempre abbassato verso terra (fonte: Wikiblepa).

Secondo il Ministro Barca, autore del ponderoso documento “Un partito nuovo per un buon governo”, “(..) è necessario che i partiti (..) si separino dallo Stato con cui si sono in Italia perversamente affratellati, fino al ‘catoblepismo’ (..)”.

“Catoblepismo”, quindi, in riferimento al mitologico animale, per il caratteristico atteggiamento: a capo chino. Nel caso del Ministro Barca, il riferimento è però all’uso che Raffaele Mattioli, economista e banchiere (sì, è il mitologico amministratore delegato della vecchia Banca Commerciale Italiana) ne faceva per descrivere i “(..) rapporti patologici creatisi in Italia, prima della crisi economica del 1930, tra il mondo dell’industria e il sistema creditizio: si trattava di un intreccio perverso di interessi e poteri in in cui il sistema bancario creditizio ordinario esercitava il controllo sul sistema industriale, mentre quest’ultimo risultava determinante per la sopravvivenza dell’altro” (fonte: WikiMattioli).

Per il Ministro Barca vi è dunque un “perverso” intreccio tra Stato e Partiti; per superarlo propone due precise soluzioni: uno Stato rinnovato, grazie alla presenza di Partiti rinnovati. Qui mi fermo, devo ancora leggere le restanti 30 pagine delle 55 complessive. Mi sono già fatto un’idea, comunque – per meglio dire, una sensazione. Personale.

Sei vecchio, quando tutto quello che leggi ti sembra già sentito.

Rimbalzi di memoria.

Altrove, nell’infinità del non-spazio virtuale, ricevo una sfida. Una citazione puntata (non solo) verso di me, con la preghiera d’astenermi da commenti parodistici. Di frenare il mio irriverente senso dell’umorismo.

La frase, è di Enrico Berlinguer: “Io non ho fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per gli ideali che ho sposato nella mia gioventù”. Eh, ah. Oh.

Raccolgo la sfida. Nessuna irrisione. Non è una questione di pantheon. E’ che mi viene, esattamente, quello che segue.

Milano, forse 1975. E’ Milano perché la giornata è grigia in modo radioso, con quella deliziosa pioggerellina che fa rimpiangere un acquazzone da professionisti. La folla si sta diradando, il comizio conclusivo si è concluso e l’uomo sul palco, l’uomo non così vecchio ma dal viso secco e segnato, si sta voltando. L’aria è ancora carica della tensione che ha trasmesso, c’è esultanza ed attesa, l’attesa di un evento che non potrà che essere vittorioso, nelle espressioni e nei commenti e persino nei passi scivolosi con cui gli astanti si diradano. Il ragazzo nelle ultime file è teso ma non esultante ed esita ad abbandonare la sua posizione: fissa il palco, osserva l’oratore che ancora si sta voltando, un immaginario rallenti. Il ragazzo ha sentito qualcosa, qualcosa in quel discorso, una nota stonata, una distorsione fuori posto nell’assolo. Cos’è che ha detto sui compromessi? Cos’è quella stronzata sul compromesso? Per il ragazzo, non solo per motivi di ormoni, “compromesso” è una parola bandita dal dizionario – never surrender. No compromise. Qualcosa in lui coniuga il marxismo a Cambronne: arrendetevi – “merd”. E giù cannonate. Compromesso. L’uomo sul palco si sta ancora voltando, le sue fattezze sono scure, nascoste dal grigio della città, scolpite dalle rughe. Continua a voltarsi e non sorride, lo farà forse solo un paio di volte nella sua vita pubblica e non lo farà lì, anche se ce l’ha fatta, è riuscito a seminare il dubbio: forse la rivoluzione non riesce da soli, forse per guidare un Paese non basta essere tanti, occorre essere maggioranza. Occorre trovare un punto d’incontro. Occorre un compromesso. Ognuno deve cedere qualcosa, è il bene comune che conta, non la vittoria. L’uomo sul palco finisce di voltarsi e, esile com’è, svanisce in un attimo, quando ha impiegato ore a voltarsi. Aspettava. La memoria non sempre fa brutti scherzi. La storia, sì. L’uomo sul palco non si volterà, a Padova, non ne avrà il tempo. Il ragazzo, avrà più tempo di lui ma solo per ritrovarsi, in questo tempo, ora che ha maturato l’idea della saggezza di un buon compromesso, a chiedersi: sì – ma CON CHI, cazzo?

LA NUOVA POLITICA

[banner size=”300X250″] Siamo entrati in una nuova era, non v’è dubbio. Non più vecchie logiche spartitorie, mercanteggiamenti di poltrone, mercimonio di carriere: idee nuove, filosofie nuove, proposte chiare e dirette. Oggi si è ascoltato un perfetto esempio di evoluzione dei tempi. “Vogliamo il Governo, oppure la presidenza del Copasir più quella della Commissione di Vigilanza della Rai”

Lineare, avanzato, NUOVO. Ed in controluce, la geniale svolta etico-ludica: “Vogliamo Parco della Vittoria, sennò Corso Magellano più Vicolo Stretto”.

In sintesi: lo Stato non si cambia, si gioca a dadi. A chi tocca?

L’ARTE DI CADERE A PEZZI

Non c’è scampo. Le orde di revenants della politica italiana circondano il paese, si avvicinano istintivamente fameliche. Nella scena finale, trionfo di carni lacerate, spruzzi di sangue, decorazioni di interiora e cervella. Poi, il silenzio. La fine.

Non ci sono accordi, non possono esserci. Inutili gli appelli alla ragione, inutili le proposte programmatiche misurate, inutile il ricorso all’argomentazione contro l’insulto. Quella scena finale è già scritta, da mesi: prevede che l’orda s’allontani barcollando, perdendo pezzi, calpestando sé stessa. Il vento solleva polvere intrisa di sangue, la polvere arrossa l’orizzonte, nascondendo la figura solitaria che avanza. E’ lui. Il liberatore. L’uomo che ci salverà.

Avanza piano, le braccia aperte per accogliere ogni cosa. Quando la polvere, finalmente, inizia a depositarsi, lui inizia a togliere la tuta che lo ricopre dai piedi al viso. Fa scorrere con calma le cerniere, quasi volesse rivelarsi allo sguardo solo poco alla volta. Ma non c’è nulla da vedere: la tuta è vuota ed un nuovo colpo di vento la porta via, lontano.

Lui c’era. C’era davvero. Purtroppo, impegnato com’era a smascherare le decomposte carni degli altri, non s’è accorto che si stava divorando da solo. Il silenzio. La fine.

Ed un lontano rumore di mandibole.