1.895.332

1.895.332. Sono i voti (fonte: sito nazionale PD) ottenuti da Matteo Renzi alle primarie per l’elezione del segretario nazionale PD. E’ il dato ufficiale, così come quello dei votanti: 2.797.938 che, aggiungendo i connazionali all’estero, diventano 2.814.881. Accade, tuttavia, da qualche tempo, un fenomeno curioso: qualsiasi riserva o domanda si rivolga al nuovo segretario PD o a qualcuno dei suoi collaboratori, la risposta inizia con il ricordare l’esito delle votazioni primarie, a guisa di argomento definitivo e tranchant e magari, per dare maggior peso al concetto, aumentandone le dimensioni. E’ già accaduto di sentir attribuire all’indiscusso vincitore delle primarie la cifra di duemilionisettecentomila preferenze (cioè, quasi il totale dei votanti); nell’intervista pubblicata questa mattina da La Stampa, Renzi fa addirittura l’en plein: “(..) io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato perché hanno condiviso quel che ho promesso che avrei poi fatto.”

L’intera cifra dei votanti, più, evidentemente, quelli che hanno mandato la giustificazione dei genitori ma, se non avessero avuto l’influenza, avrebbero votato per lui. Sto scherzando e magari la cifra è venuta fuori così, per la foga dell’argomento o un’errata trascrizione del testo dell’intervista. Oppure no, questo tormentone del “ho preso una valanga di voti quindi ho ragione io” è il segno vero di questo self-proclaimed rinnovamento, fatto solo di prepotenza e di idee appena abbozzate perché “Renzi non si cura dei dettagli” (rileggetevi l’intervista di Gutgeld, qualche post fa). Come un pessimo gruppo metal, il segretario-sindaco non si premura di suonare seriamente e di avere almeno un chitarrista degno di questo nome ma soltanto di alzare il livello degli amplificatori. Rumore politico.

Da ultimo, se avrete la pazienza di leggere l’intervista, fate un piccolo esercizio: rilevate, a vostro giudizio, qual’è l’affermazione più forte, più netta e decisa. Per me, é questa: “(..) Lui, Enrico (Letta), è stato portato al governo anni fa da D’Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente”. Questo è l’uomo che vorrebbe accreditarsi come segretario di tutto il PD, come l’uomo del plebiscito. Lui combatte D’Alema – che non ha incarichi, che ha di molto ridotto l’attività all’interno del partito e che, in ogni caso, non dovrebbe rappresentare un gran pericolo per qualcuno che ha davvero ottenuto 1.895.332 voti – ed ha preso tre milioni di voti, quindi ha ragione lui, su qualsiasi cosa.

Prima che arriviamo alle folle oceaniche ed al consenso obbligato, ribadisco che io non l’ho votato e che sto bene, anche dalla parte del torto.

La versione di McKinsey

[banner network=”altervista” size=”300X250″]Un amico mi segnala questa intervista a  Itzhak Yoram Gutgeld, consigliere economico del neo-eletto segretario nazionale PD, Matteo Renzi. Ricordato che, in precedenza, Gutgeld è stato senior partner e direttore di McKinsey & Company fino al Marzo 2013, Vi raccomando la lettura di questo intervento, soprattutto prima di addentrarVi nei commenti che posterò qui di seguito, rispettando l’ordine degli argomenti presentati nell’intervista. Buona lettura.

“(..) un mercato del lavoro duale, composto, da un lato, da una fascia di iper-protetti e, dall’altra, da giovani condannati a una precarietà assoluta.”. Perché usare il suffisso ‘iper’ che identifica dimensioni superiori al necessario? Non è così, stiamo parlando di conquiste maturate in anni, attraverso sacrifici e lotte; conquiste che cercano di realizzare l’ideale stato di garanzia, di sicurezza e di dignità che deve essere riconosciuto ad ogni singolo lavoratore. O pensiamo che i lavoratori della Thyssen, regolarmente assunti, fossero “iper”-garantiti?

“(..) non si tratta di abolire il contratto a tempo indeterminato, né di porre fine alle tutele di chi ce l’ha, in quanto questo nuovo contratto «indeterminato flessibile» varrebbe soltanto per i giovani.”. Gutgeld non vuole abolire l’art.18, lo vuole ‘soltanto’ sterilizzare, stabilendo fin dall’inizio un indennizzo in caso di licenziamento. Il principio della giusta causa e il deterrente del reintegro nel posto dal quale si è stati allontanati sono le uniche barriere avverso la ‘mano libera’ delle aziende nei licenziamenti. Inutile girarci attorno: sappiamo come le aziende interpretano il tema del licenziamento: a rimetterci, sarebbero i dipendenti ‘scomodi’, ovvero quelli che non aderiscono all’ideologia aziendale o che denunciano condizioni di lavoro difformi dalla norma;

“(..) garantire alla persona che perde il posto di lavoro sia un sussidio di disoccupazione adeguato sia la possibilità di riqualificazione professionale.”. Un po’ di flexicurity non guasta, anzi ci mette tutti d’accordo: il guaio – a parte non menzionare quel noioso problemuccio della copertura di spesa – è la differente tempistica: per realizzare un mercato del lavoro flessibile ed aperto che consenta non solo di recuperare in fretta il posto perduto ma anche, attraverso una formazione mirata, di acquisire una professionalità del tutto differente, richiede tempo ed impegno. Nel frattempo, ‘sterilizzato’ l’art.18 con la proposta di cui sopra, partirebbero i licenziamenti. Subito.

“(..) non si tratta di abolire il contratto a tempo indeterminato, né di porre fine alle tutele di chi ce l’ha, in quanto questo nuovo contratto «indeterminato flessibile» varrebbe soltanto per i giovani.” La domanda è naturale – ed infatti, l’intervistatore la pone: sì, ma fino a quale età? Attenzione alla risposta: “Renzi non si è mai addentrato in dettagli di questo tipo, il suo scopo è lanciare un’idea e poi lasciare che la politica ne discuta.”. Scherziamo? E’ logico, naturale e doveroso che la politica tutta ne discuta MA l’onere di dettagliare la proposta, di sostanziarla con cifre e fatti, è IN PRIMIS di chi la lancia. Che succede, nel manuale della McKinsey manca la pagina “età per essere indeterminati ma flessibili”? Provate su Wikipedia..

“(..) Occorre inoltre intervenire sul sistema complessivo di formazione professionale, che oggi spesso lavora più per i formatori che per gli studenti.”. I dati, gli stessi citati da Gutgeld, ci dicono che occorre riformare e rilanciare i Centri di Lavoro. Tuttavia in questa frase finale l’accento non sembra cadere sulla riforma strutturale, quanto su una questione di produttività: insomma, sono i formatori che non rispettano il budget. Magari, con un bel contratto “indeterminato flessibile”, si possono licenziare. Sempre in attesa di un mercato del lavoro che assorba e perdoni i nostri esperimenti a tavolino.

Solo un’intervista? No. Un passaggio del discorso di Matteo Renzi all’odierna assemblea nazionale del PD: “Non si può discutere per 10 anni sull’articolo 18, mentre si dimezza l’attrattività degli investimenti esteri. Noi dobbiamo dire che tutti coloro che perdono il posto di lavoro, hanno diritto a un sussidio universale. O il Pd torna ad essere il partito del lavoro, o perdiamo la nostra identità. Secondo i sondaggi siamo il terzo partito tra gli operai, tra i precari e i disoccupati, non solo tra le partite Iva. Dobbiamo ragionare su questo punto. Dobbiamo entro un mese presentare un progetto di legge per semplificare le regole del lavoro e degli ammortizzatori sociali.”

Indeterminato e flessibile nelle argomentazioni, come la sua proposta: dove attingere per coprire l’onere del sussidio universale? Ma certo, lo dirà qualcun altro; il Segretario Nazionale nonché Sindaco si limita a “lanciare le idee”.

Le lancia in aria e poi grida “pool!”

 

 

 

Postmoderno post

[banner network=”altervista” size=”300X250″] “Il personaggio Renzi è la figura del politico comunicatore per antonomasia, fin dal suo affacciarsi nell’agone politico. “Matteo” rappresenta nel Pd l’espressione più marcata della post-politica e della post-ideologia. Non si può pensarlo se non nell’Italia dopo gli anni Ottanta nella quale la crisi della credibilità della politica è accompagnata per un verso alla “performing society”, per l’altro alla personalizzazione e mediatizzazione di chi faceva e fa politica.”

Definizione del Professor Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia in una breve intervista al sito www.formiche.net (testo completo qui); poco più avanti, ci si imbatte in un’altra interessante affermazione:

“Cuperlo è sicuramente un intellettuale ma rifiuta la post-modernità. In questo è “nobilmente resistente” ma dovrebbe trovare il modo di stare nella post-modernità, magari in maniera critica. Si tratta di un processo di rielaborazione che richiede molto tempo.”

Dunque, Cuperlo non è postmoderno, Renzi sì. Postmoderno? Altra definizione: mutuata dal filosofo Lyotard, secondo il quale l’epoca moderna che precede la contemporaneità postmoderna era caratterizzata dal progetto di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi unitari. Ad esempio, i grandi movimenti della modernità quali l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo, possedevano la pretesa di racchiudere il senso dell’intera realtà entro un principio unitario: la ragione per il primo, il movimento totalizzante dello spirito per il secondo, le leggi materialiste della realtà per il terzo. La postmodernità è caratterizzata invece dalla caduta di queste pretese e dal conseguente sfaldamento delle certezze stabili che possono indicare all’uomo un qualsiasi sentiero definitivo. Più o meno.

Per quanto ovvio, non è l’unica definizione possibile e teorizzata di ‘postmoderno’; altre si possono trovare, soprattutto con riferimento ai processi sociali ed alle arti. Certo, se seguiamo la tesi per la quale “una società così decentralizzata inevitabilmente generi percezioni e reazioni descritte come post-moderne, come ad esempio il rifiuto della unitarietà della metanarrativa e dell’egemonia, unitarietà vista come falsa e imposta; la rottura dei tradizionali steccati tra i generi, il superamento delle strutture e degli stili tradizionali; lo spodestamento di quelle categorie figlie del logocentrismo e il rifiuto delle altre forme di ordine artificialmente imposto” e pensiamo allo scenario politico e sociale italiano di oggi, possiamo vedere similitudini e processi preoccupanti. Per i quali possiamo dire che la politica nel nostro paese è molto ‘postmoderna’.

Tuttavia, prima di ricordare a tutti che, come nella migliore delle tradizioni d’ogni disciplina, anche la definizione di ‘postmoderno’ ha i suoi detrattori, si presta a critiche d’ordine, diciamo, cronologico e viene superata – siamo all’ovvio – dalla definizione di ‘post-post moderno’; e prima che un maelstrom filosofico si apra sotto i nostri piedi inghiottendoci, vorrei tornare alla prima definizione del Professor Panarari. Rileggete attentamente e provate a sintetizzare così: post-ideologia-anni ottanta-performing society (cos’é? Prof?)-mediatizzazione. Sintetizzate ancora: post-ottanta-society. Vi ricorda nulla – soprattutto, vi ricorda nessuno?

Non c’era già qualcuno, allora come oggi il sindaco di Firenze, che si muoveva con grande sfoggio di sicurezza, decisionismo, ansia di vittoria, di ridimensionamento (addirittura, schiacciamento) degli avversari, progetti grandiosi di riforma o di riformismo e mutamento sociale? Qualcuno nota una somiglianza, qualcuno ricorda un nome.

Io sì. Poi, magari, mi sbaglio al 90% (ok, mi tengo un grasso 10%, va bene?). Eppure, vedo comporsi i frammenti di questo nuovo postmodernismo, frammenti così dinamici, così liquidi (come i partiti postmoderni, no?) che si potrebbero bere. Come una volta si bevevano le città.

Ma ho mal di testa, stasera.

Aoxomoxoa

A volte, proprio non capisco. Ad esempio, la frase seguente – tratta da un comunicato della Direzione Nazionale dell’Importante Sindacato al Quale Sono iscritto (minuscolo, l’iscritto non è sostantivo) – è sicuramente pregna di significati ma non riesco a coglierli:

“Una piattaforma (..) che abbia al centro le tematiche e le contraddizioni che la fase propone: • la difesa dell’occupazione con al centro la stabilità del lavoro, anche in rapporto all’allungamento degli orari di lavoro ed all’affermarsi delle nuove reti di distribuzione. Su questo versante diventa importante la definizione di un percorso preferenziale per le nuove assunzioni, che dia la precedenza a tutti i lavoratori e le lavoratrici bancari che hanno perso o perderanno il posto di lavoro, con particolare attenzione alle piccole-medie aziende (..)”

Dice, destruttura che è tutto più chiaro. Ed io destrutturo:

1) “la difesa dell’occupazione con al centro la stabilità del lavoro”, frase palindroma: se scrivete “la stabilità del lavoro con al centro la difesa dell’occupazione”, è lo stesso. Ad ogni modo, tenetela lì un attimo;

2) “un percorso preferenziale”, ecc. – Frena, frena: grande preferenza per le nuove assunzioni ma se diamo la precedenza ai bancari (‘tori o ‘trici che siano) che facciamo, riassumiamo gli stessi? Ma soprattutto:

3) non avevamo detto “la difesa dell’occupazione con al centro la stabilità del lavoro”? (eccola!). Se difendo e stabilizzo, chi è che perde il posto di lavoro? O sono io che mi sono perso qualcosa? Dopo di che:

4) “particolare attenzione alle piccole-medie aziende”, bancarie, I suppose: perché se sono le PMI siamo fuori argomento e fuori contratto. Tanto, non c’è più il contratto che però, quando c’era, valeva per tutti a prescindere dalle dimensioni: e qui, capisco. Se fanno sparire me, che lavoro in una grande-grandissima azienda, mi si nota di meno – anzi, non mi si nota. Però, io sto nei guai lo stesso, come un collega PMI.

Destrutturato, è destrutturato. Il periodo (inteso come frase), tuttavia, continua a restarmi oscuro, proprio come il periodo (inteso come momento storico) rimane da Medio Evo; con l’unica prospettiva, saltando qualche fase storica, d’approdare subito alla Guillotine dei tagli ai posti di lavoro: discuti discuti comunica comunica, stiamo sempre a parlare di esuberi. Di esodati. Di uscite. Com’é possibile?

Perché “la difesa dell’occupazione con al centro la stabilità del lavoro”, per quanto palindroma, è aritmica con tutti quanti “hanno perso o perderanno il posto di lavoro” e, peggio ancora, proprio non si coniuga con la difesa della sanità, mentale e fisica, di chi – eventualmente – resterebbe, aggrappato ai remi, a cercare di mantenere la nave a galla. Non parliamo di tenere la rotta.

Ma sarò soltanto io, che non capisco.

(n.b.: se scrivete invece “cercare di mantenere la rotta. Non parliamo di tenere la nave a galla”, beh, SEMBRA palindromo. Ma sembra solo).

Progressive (rock) Party

Sfogliando i quotidiani, questa mattina, mi è caduto l’occhio su una foto dei tre candidati alla segreteria nazionale PD, ritratti nel classico modo profilo/tre quarti, testa a testa. Un canone fotografico che fatalmente, ad un maniaco della musica rock (prog, in questo caso) fa scattare un’associazione d’idee ben precisa e cadenzata: Emerson-Lake-& Palmer.

Se siete sostenitori di Civati, vi concedo un’occhiata a Wikipedia: non eravate neppure nati; se viceversa, il vostro orientamento è favorevole a Renzi, vostro padre vi ha fracassato i timpani con “Pictures At An Exhibition” – vinile che voi avete ceduto al rigattiere, in cambio di “Follow The Leader” dei Korn. Da ultimo, se vi accingete a votare per Cuperlo, siete l’autore di questo post, quindi contate uno (non doveva raccogliere l’uno per cento delle preferenze, secondo il sondaggio del giornale della sera?).

Il gioco, tuttavia, non si ferma qui: sì, perché riguardando quella foto da sinistra a destra e ripetendo il nome in ditta della gloriosa prog band, le somiglianze – per così dire – suonano: un discorso di Civati non è forse vulcanico e rutilante come una fuga di tastiere sovrapposte? Non è forse la nuova sinistra moderna, da Marx a Moog?

Al centro del terzetto, mento sollevato, sorriso sornione da playboy, Renzi riecheggia Lake, volti angelici, profluvi di parole appoggiati su melodie barocche. E’ un ragazzo fortunato (“Lucky Man”) ma sa che sul campo di battaglia (“Battlefield”), da subito (“From The Beginning”) dovrà asfaltare i suoi competitors, come un vero Tarkus. Dopotutto, C’est la Vie.

Sguardo perso in avanti ma comunque severo, Cuperlo sfoggia lineamenti squadrati e chioma incanutita, proprio come il metronomico Palmer: preciso e deciso, tiene il tempo pazientemente seduto dietro ai due frontmen, lasciando loro agio e spazio per romantici pizzicati rottamatori e vigorose coltellate di sfiducia al vecchio organo hammond. Tanto.

Tanto, prima o poi, arriva il suo momento, il momento del suo assolo: e tutti in silenzio ad ascoltare il ritmo preciso, incalzante, dei concetti; il battito secco e senza fronzoli del programma; la geometria precisa del rullante valoriale. Sempre lo stesso assolo, magari, ma ogni volta più preciso. Potrebbe anche farcela, a rubare la scena.

Ma i fan preferiscono i cantanti – o così si dice. La critica mediatica s’annoia, con gli assoli di batteria. Ed il congresso, alla fine, sarà solo un Karn Evil PD: “Welcome back my friends to the show that never ends / We’re so glad you could attend / Come inside! Come inside!”

Come inside. Lo show è per l’8 Dicembre. Io porto le bacchette: e suona bene.. chi suona bene.

Buone letture

Ho ascoltato in diretta il discorso di Gianni Cuperlo alla Convenzione Nazionale del PD. Sono già schierato con lui, sono convinto delle sue qualità e capacità da molto tempo; anche da prima di quel congresso di Firenze con il quale i DS scelsero di far parte del progetto Partito Democratico. Il discorso che Cuperlo pronunciò in quella occasione, ascoltato da una platea distratta dall’imminente intervento di un big, fu importante e netto, com’è tipico suo. Quel discorso conteneva l’ormai famosa ed abusata citazione di Umberto Saba, il poeta, ovvero “Gli italiani sono l’unico popolo, credo, che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ed è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”, che da sola spiega molte cose della storia, politica e sociale, del nostro paese – e di questo partito. Una citazione che altri, in apparenza insorti con la vocazione al parricidio, non arrivano neppure a sfiorare nella sua superficie. Il discorso di oggi non è arrivato a toccare punte di così feroce polemica intellettuale ma non è stato meno deciso, puntuale, ampio e programmatico. Citando valori, idee, musica (il ‘canone’ come metafora dei valori che mai dobbiamo trascurare e la cui validità non muta con il tempo) e letteratura sportiva (Osvaldo Soriano, filosofo del calcio come metafora della vita) ha stilato l’elenco delle cose da fare come partito, come forza sociale, come sinistra. Non ha negato errori, non si è concesso smargiassate: le riforme servono qui ed ora, non dal 9 dicembre e la rivoluzione, se davvero è questo che abbiamo in mente, non è un lavoro part-time, da alternare ad altri impegni. Detto questo, mi direte che ha letto il discorso (ve lo confermo, è difficile che vada a braccio) e che non lo ha interpretato: niente battute, niente pause (ha perfino interrotto gli applausi in un paio di circostanze), niente intonazioni ad effetto. Vero. La domanda tuttavia è: finalmente è arrivato il momento, in Italia ed a sinistra, di affidarsi a persone serie, responsabili e preparate anche se non brillanti o anche questa volta, in nome dello stramaledetto carisma (forza, fateci una finanziaria con il carisma..) ci affideremo a qualche simpatico improvvisatore?

(Se sono almeno riuscito ad incuriosirVi, il discorso di Cuperlo è sintetizzato qui).

Silent running

”Non temo la scissione, sono preoccupato del rischio di un abbandono silenzioso. Il nostro e’ un partito plurale, se dovesse somigliare alla Democrazia cristiana dei signori delle tessere, ho l’impressione che una parte dei nostri iscritti non si sentirebbe più a casa sua”

Se, a questo punto, citassi l’autore di questa affermazione, voltereste immediatamente pagina, suppongo. Sbagliando, a mio parere; solo una questione di pregiudizio. Tuttavia, non è per questo che vi lascerò comunque indovinare. Rivendico, nel mio piccolo, di stare rimuginando il medesimo concetto già da parecchio tempo, addirittura dal precedente – ed ugualmente penoso – congresso del partito al quale ancora sono iscritto. Ancora – ma non so sino a quando. Non temo tanto i signori delle tessere (che ci sono, oggi come ieri), temo l’irrimediabile perdita di un metodo, di un merito, di un’etica politica; temo un deficit di democrazia proprio mentre si proclama la massima apertura, la massima trasparenza. Temo il vuoto d’aria di un rinnovamento, l’ennesimo, che sta solo nelle parole e nell’immagine; zero concetti, zero volontà vera di ribaltare la società attuale. E rassicuranti pacche sulle spalle a questo paese per giustificarne, ancora una volta, il comodo crogiolo di pigri e condivisi difetti. E avanti con il mantra: rinnovamento, ripartenza, vincere. Come fosse, davvero, solo una gara sportiva.

Comunque devo aspettare. Anche se i petali di rose sono già, quotidianamente, lanciati in aria a lastricare la strada del vincitore annunciato, c’è ancora tempo prima della proclamazione del nuovo console – scusate, del nuovo segretario. Tempo, per me, di una battaglia probabilmente perdente: e lì, in silenzio, senza scissioni, senza farla tanto lunga, restituirò la tessera. Che non significa abbandonare il campo. Non significa passare da un’altra parte.

Significa soltanto avere un altro, ben più alto, concetto del termine ‘lealtà’.

P.s.: lo so, penserete tutti che in realtà ho scherzato, era solo un game per invitarvi a trovare la citazione cinematografica (c’è, ed è calzante). Tranquilli. Ve l’ho detto. Ora, esco: non c’è bisogno di ricordarmi di non sbattere la porta.

PUNTI DI CADUTA

Riporto da una recente intervista di Agostino Megale, segretario nazionale Fisac-CGIL, a La Repubblica:

Perché è così urgente l’accordo sul Fondo?
“Perché la disdetta del contratto dell’Abi ha impedito di raggiungere l’accordo e ora c’è tempo solo fino al 31 dicembre, altrimenti salterà per sempre quell’ammortizzatore sociale che ha permesso finora di affrontare gli esuberi e i momenti di difficoltà del settore, che non sono certo destinate a rientrare”.
Quali numeri si aspetta per il futuro?
“Tra il 2011 e il 2012 sono stati fatti accordi per l’uscita di 19 mila lavoratori entro il 2015 e ulteriori 5 mila se ne potrebbero aggiungere nel 2013, con il nuovo piano Mps”.

Accidenti. Avevo capito male, credevo che l’uscita dei 19.000 fosse una richiesta di ABI; sembra invece, leggendo questa dichiarazione, che si tratti invece del consuntivo degli accordi raggiunti, poco a poco, negli ultimi anni. Quindi, comunque, 19.000 (forse, 24.000) usciranno. Perciò, le organizzazioni sindacali si preparano a dare battaglia su un argomento e forse uno solo: il Fondo di Sostegno, unica giustificazione per il via libera alle uscite. Ecco il punto di caduta: siamo pronti ad anticipare il pensionamento di una classe di lavoratori ancora perfettamente in grado di dare il proprio contributo (che poi lo vogliano o meno, questo è altro. E comunque, non è in discussione..), in cambio del giusto sostegno economico, magari in parte (congrua) a carico dello Stato.

Non trovo giusto pensare che questa sia l’unica battaglia. Non trovo giusto, da molti anni, lasciare che il manovratore guidi indisturbato in quanto così ci è garantito un percorso confortevole. Preferisco qualche curva brusca e magari qualche ripida salita ma voglio disturbare il manovratore e fermare questa corsa allo smantellamento del lavoro bancario: ciò che è stato ampiamente sperimentato nell’industria, viene ora perfezionato nel nostro settore. Riflettiamo un attimo: altri 19.000 esodi – e chi resta? Quali scenari si aprono con meno addetti e carichi di lavoro (e responsabilità) che già oggi sono soverchianti? Quale qualità del lavoro, posizionamento sul mercato, presidio del territorio con sempre meno agenzie aperte? E chi coprirà, e come, i nuovi, prolungati, orari, senza assunzioni?

E’ tempo che anche le OO.SS. si scuotano da questo torpore relazionale, da questa subalternità formale: basta attendere piani aziendali (già messi in pratica ben prima di essere presentati), basta attendere consuntivi di ristrettezze al netto dei pingui bonus riservati alle alte – e meno – dirigenze. Questa è la battaglia finale, questo è l’ultimo fronte: lasciare, ancora una volta, il palco alla ABI-band sarebbe la nostra linea Maginot. E’ in gioco il futuro del settore, del nostro lavoro – il nostro futuro tout court, che si resti in produzione o che si venga, graziosamente, accompagnati all’uscita.

E’ in gioco, infine, il futuro del sindacato: se non sapremo interpretare il momento e recuperare forza e strategie adatte al passaggio, il declino degli ultimi venti anni arriverà al suo punto finale, consegnandoci  – magari, nero su bianco – al ruolo cui ci siamo candidati per delicatezza: quello dei semplici osservatori. Magari critici (senza alzare i toni, per carità) ma sempre osservatori.

Del vuoto che resta quando (salva)guardi il posto di lavoro dalla platea.

NO FAIR-PLAY

Domattina, gli sportelli bancari riapriranno secondo il consueto orario. Lo sciopero dello scorso 31/10, secondo i dati pubblicati dalle organizzazioni sindacali, è pienamente riuscito, con una percentuale di adesione che oscilla tra l’85 ed il 90%. Domattina, tuttavia, non sarà il caso di riprendere come se nulla fosse o come se il peggio fosse passato. Una citazione illuminante, da un articolo comparso sul tri-quotidiano “Nazione/Carlino/Giorno” lo scorso 27/10:

“Inoltre il totale delle ‘sofferenze’ bancarie, sempre a Giugno, ammonta a quasi 133 miliardi di euro. Si tratta di numeri giganteschi, davvero impressionanti, che rendono molto evidente un fenomeno ormai di massa, sociale, e che rischia, se non arginato con misure urgenti e strutturali, di schiacciare l’economia produttiva italiana di ogni genere, dalle imprese manifatturiere, alle famiglie, alle banche che sono più che mai strettamente connesse in questa grave crisi”.

Affermazione precisa, documentata, condivisibile. MA. Chi ha scritto questo inciso? Un economista liberale pentito? Un sindacalista di base? Un pensoso editorialista progressista? Chi parla di “fenomeno ormai di massa, sociale” che può schiacciare l’economia del paese? Risposta: il Dott.Antonio Patuelli, editorialista del giornale MA ANCHE Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana (ed in tale veste, firma l’articolo).

Peccato che, nella stessa veste di Presidente dell’ABI, voglia aggiungere 19.000 unità familiari al numero già alto che compone un terzo delle vittime della crisi (gli altri due terzi, come enunciato sono imprese e banche). 19.000 unità familiari il cui costo ABI vorrebbe scaricare magari interamente sullo Stato, attraverso il ricorso alla cassa integrazione. Come se poco più di un anno fa non si stesse discutendo della cifra di 1.500.000 euro necessaria (ma introvabile) per confermare la CIG dei successivi sei mesi..

Una contraddizione davvero originale, focalizzare il problema da un lato ed aggravarlo dall’altro. Certo, l’articolo è di quattro giorni antecedente allo sciopero; è facile tuttavia prevedere che anche con il 92% di filiali chiuse, ABI voglia proseguire su questa ecumenica strada di smantellamento del settore, mostrando pubblicamente la faccia seria e quasi rattristata al pensiero della grave crisi sociale mentre, sul fronte interno, procede a colpi di machete, sempre sociale, per recuperare liquidità.

Per questo, domattina, si riaprirà secondo i consueti orari MA con la consapevolezza che la discussione è appena iniziata e di iniziative di sciopero ne dovranno seguire altre – e non solo: urge chiamare in causa il terzo, indispensabile attore, l’arbitro. Il Governo. O il Ministero dell’Economia e delle Finanze è già lietamente disposto ad accollarsi un altro grave costo? Peraltro, pur invocando l’intervento dell’arbitro, sia chiara una cosa: insieme al contratto, è disdetto anche il fair-play. Solo entrate a gamba tesa: se prendiamo palla, è meglio.

Il come della Rosa

E’ possibile che nei presidi organizzati già da domani dalle rappresentanze sindacali dei bancari, a sostegno della giornata di sciopero del 31/10, venga offerta ai passanti, oltre al volantino esplicativo delle ragioni della protesta, anche una rosa.

Un omaggio floreale che i media hanno già ribattezzato “operazione simpatia”, senza sapere, forse, di cogliere un nervo scoperto delle nostre organizzazioni di categoria: sì, perché per quanto brutta s’andasse facendo, negli ultimi venti anni, la situazione all’interno, parlarne al di fuori, spiegare non solo le nostre ragioni ma la progressiva involuzione del settore e del lavoro, era un tabù. Proibito. Sbagliato. Ed infatti. Il nostro contratto sta per essere definitivamente sepolto grazie anche all’assordante silenzio dei grandi comandanti succedutisi via via nelle rispettive plance nazionali.

E non soltanto il loro. Perché, in effetti, proprio così impermeabili e invisibili non siamo: c’è chi ci vede ogni giorno, chi vede in quali condizioni siamo chiamati ad operare e quali responsabilità gravano sulle nostre spalle – a cominciare da quella sacrosanta normativa antiriciclaggio che piace a tutti finché non bisogna firmare un questionario. Sono gli utenti, è la comunità, il territorio. Forse che questo ha cambiato, in quegli stessi maledetti venti anni, l’immagine sprezzante e pregiudiziale con la quale veniamo descritti? No, noi siamo sempre quelli che non fanno un k@##o tutto il giorno, che escono alle cinque dopo essere arrivati in ritardo, che se ne fregano dei problemi del popolo – e via declinando lo sciocchezzaio comodo e strumentale.

Anche questo, ci ha portati qui: deboli all’interno e deboli all’esterno. Malvisti all’interno delle grandi confederazioni sindacali (vuoi mettere quante tessere portano i pensionati? Vuoi vedere che è per questo che i sindacati sono tanto favorevoli agli esodi?); malgiudicati, per pigrizia mentale, da quel territorio che pure da noi pretende quell’impegno che non è disposto a riconoscerci. Così, per ennesimo misunderstanding, le OO.SS. reputano, senza arrossire, che dobbiamo rifarci un’immagine e che per questo basti, galantemente, offrire una rosa. Vorrei dissentire, non tanto sull’eleganza di un omaggio, sul come; quanto sulla scelta, il cosa.

Più che le rose, troverei appropriati i carciofi.